mercoledì 21 novembre 2018

#Blogtour:"Quasi Tre" di Tommaso Avati - L'intervista


Buon pomeriggio bookspediani!
Oggi vi porto sul blog un'intervista che ho avuto il piacere di fare a Tommaso in occasione del blogtour del suo libro, Quasi Tre.
Siete pronti a leggerla?



IL ROMANZO


Titolo: Quasi Tre
Autore: Tommaso Avati
Editore: Fabbri Editore
Genere: Narrativa
Data di uscita: 2 Ottobre 2018

TRAMA: 


Raffaele e Benedetta, undici anni di matrimonio, zero figli, due adorabili maialini d'appartamento da chiamare "bambini". Due voci, l'una il controcanto dell'altra, che si rincorrono e ci raccontano la loro storia: lei segretaria in un'agenzia romana per lo spettacolo e appassionata di cucina, lui sceneggiatore mancato riciclatosi insegnante, figlio d'arte in attesa perenne di sfondare nel mondo del cinema. Un rapporto ormai cristallizzato in una routine distratta, il loro, eroso dall'abitudine e dalla delusione di non essere riusciti a fare della propria esistenza qualcosa di cui andare fieri. Poi accade l'impensabile. A quarantasei anni, quando già comincia a pensare alla menopausa, Benedetta rimane incinta: il caso, con grande ironia, inizia a giocare con Lele e Benny, concedendo loro un'altra possibilità, l'occasione per riprendere il controllo del loro matrimonio e delle loro vite. Ma a volte non c'è niente di meglio di un "secondo tempo" per rimescolare le carte di una vita intera: tra genitori disfunzionali e colleghi sull'orlo di una crisi di nervi, Lele e Benedetta vengono risucchiati in un turbine di incomprensioni, aspettative malriposte e disavventure esilaranti, dove la posta in gioco è un amore dolceamaro, quasi acido. Insomma, un amore normale.









L'INTERVISTA



Risultati immagini per tommaso avatiCome è nata l’idea per scrivere questo romanzo?
L’idea del romanzo è venuta fuori dopo un bel po’ che ci lavoravo. Inizialmente mi ero concentrato solo sul personaggio maschile, e il racconto verteva sulla sua vita, sui suoi problemi con il suo lavoro di sceneggiatore e di insegnante, sul suo rapporto col la sua famiglia di origine. La moglie appariva solo marginalmente e i loro problemi di procreazione rappresentavano una parte trascurabile del racconto. Mentre scrivevo però mi rendevo conto che la parte bella era proprio questa. Il fatto che lui e lei dopo undici anni di matrimonio non fossero riusciti ad avere figli, e che in qualche modo questa ferita avesse lasciato dei segni in loro stessi e nella loro relazione mi sembrava il dato più interessante, quello che rendeva il personaggio di Lele più completo, più umano. Ma per essere raccontato bene avevo bisogno del supporto di sua moglie, di sentire la voce di Benedetta. Ed ecco che il romanzo, quasi naturalmente, ha preso questa piega, è diventato un racconto a due voci, composto di brevi capitoli in cui udiamo a staffetta la voce di lui e quella di lei, in prima persona; sentiamo i loro pensieri. 


 Quanto di te possiamo trovare nei personaggi?
Molto. Quando si scrive è difficile non metterci del proprio. In fondo c’è chi sostiene che sia per questo che si scrive, per operare una sorta di auto analisi, per fare terapia. E non nascondo che in effetti sia bellissimo potersi raccontare, poter parlare di sé, mettersi in piazza e trasfigurarsi in un racconto. Come nel mio primo romanzo anche qui sfrutto diversi elementi autobiografici che però il più delle volte fungono solo da punti di partenza, da pretesto per costruire, per produrre racconto e per dare vita ad idee interessanti. Ma è indubbio che Lele mi somigli molto e che Benny somigli a mia moglie. Mentirei se dicessi il contrario. Io d’altra parte conosco bene le frustrazioni che derivano dal non riuscire ad avere figli, e credo di conoscere abbastanza bene anche quello che passa per la mente di una donna che non riesce a procreare. 



 Come descriveresti il romanzo in cinque parole?
Vero. 
Ironico.
Straziante. 
Doloroso. 
Confortante. 

Sono in un certo senso coppie di aggettivi che si contradicono. Mi sono venuti così, ma credo che rispecchino la realtà. Forse proprio perché la dualità è la cifra di questo romanzo a due voci. 


Come funziona il tuo processo creativo? Hai già tutta la storia in mente oppure ti lasci guidare da questa?
Di solito non comincio a scrivere il romanzo vero e proprio prima di sapere con buona certezza cosa succede per almeno due terzi del racconto avendo anche un’idea piuttosto precisa di come dovrebbe essere il finale. In questo caso però le cose sono andate diversamente. È cambiato tutto in corso d’opera, come cercavo di spiegare poco fa. Quindi, quando credevo di essere già a buon punto della scrittura ho buttato all’aria parte di quel che avevo fatto e ho ricominciato, introducendo la moglie. In generale comunque, prima di cominciare a scrivere, mi munisco di una scaletta, la serie cioè di eventi che dovrebbero rappresentare la successione narrativa dall’inizio alla fine. Non sono uno scrittore istintivo, non vado a braccio. Mi piacerebbe poterlo fare, ma non ne sono capace. Ho bisogno di preparare il lavoro in maniera piuttosto solida. 


Ora cosa dobbiamo aspettarci? Hai qualche nuovo romanzo in programma? 
Ho in mente una storia che tratti il tema della diversità. Vorrei però affrontarlo in una maniera un po’ inedita, diversa da come è stato fatto fino ad ora. 
Non voglio svelare atro. Ma vorrei trattare la diversità un modo diverso… 


Immagine correlataCome mai hai deciso di focalizzarti sulla sfrenata 
ricerca di completare una famiglia, provando ad avere un figlio?
Perché è un problema che conosco bene. E perché è un problema a volte un po’ sottovalutato. Soprattutto per gli uomini, per quei mariti che volevano diventare padri e non ci sono riusciti. Si tende a credere che siano soprattutto le donne a soffrirne, ed è vero, ma anche per noi uomini, non riuscire ad avere un figlio rappresenta una ferita immensa. Per uno scrittore poi, per un creativo in generale, è una ferita doppia perché ha a che fare con la creatività, appunto, con la creazione, col dare vita a qualcosa; non riuscire ad avere un figlio rappresenta un fallimento che si ripercuote anche sulla pagina bianca, sul non riuscire a produrre qualcosa di bello. 
Provo molto affetto per quelle coppie che non sono riuscite ad avere figli, mi sento molto vicino a loro. Con questo romanzo è come se avessi voluto abbracciarli tutti, idealmente. È come se avessi voluto dir loro: non è stata colpa vostra se è andata così, non è colpa tua se non riesci a diventare madre, o padre, tu non hai nulla che non va, è colpa della natura, solo della natura, tu non hai nulla che non va… 


Come sei riuscito a trovare il ritmo perfetto tra i momenti ironici del romanzo e quelli di serietà?
Imitando la realtà. Nella vita in fondo è così. Me ne accorgo sempre più spesso, mi accade spontaneamente di rendermi conto di come ironia e dramma vadano spesso a braccetto, una accanto all’altro in maniera indissolubile. E mi rendo sempre più conto di come sia giusto così, di come questo binomio sia perfetto, naturale, tanto da nascondere in sé forse qualcosa di profondo, come se fosse un segreto, il segreto della vita, delle cose che si ripetono sempre allo stesso modo, con la stessa cadenza, Yin e Yang. Da sempre, e per sempre. 


È sempre stato il tuo sogno quello di diventare uno scrittore?
No, da bambino volevo fare il cuoco…
Me lo sono ricordato poco tempo fa.


Che consiglio daresti agli aspiranti autori?
Di cambiare aspirazione... 
Scherzo. Di vero c’è che il mondo della scrittura, che sia narrativa o cinema, è difficilissimo. 
È difficile farsi notare, è difficile emergere, è difficile non farsi prendere dallo sconforto per i rifiuti, per le risposte mancate, per la mancanza di gratificazioni. 
Ma creare qualcosa di tuo, di veramente tuo, che prima non c’era e che ti somiglia (un romanzo, così come un bambino) è il mestiere più bello che ci sia…


Personalmente vedrei benissimo il libro sul grande schermo, è davvero perfetto, c’è per caso qualcosa in programma?
Non è la prima volta che lo sento dire ma devo ammettere di non essere molto d’accordo. In realtà ho scritto Quasi Tre cercando di essere il meno cinematografico possibile, cercando di pensare il più possibile alle emozioni dei nostri protagonisti e meno a quel che succedeva loro a livello visivo. E in fondo questo racconto poteva essere scritto solo in questo modo. Sono felice però che chi lo legge riesca a vederlo, ad immaginare le scene vivide, concrete. Significa forse che ho fatto un buon lavoro, e che Lele e Benny sono personaggi reali, quasi in carne ed ossa… 







Mi raccomando, non perdetevi neanche una tappa!







1 commento:

  1. bella intervista ed è vero che è una storia che si presta benissimo al grande schermo..già vedo Lele e Benny in carne e ossa!

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